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giovedì 8 novembre 2007

I problemi irrisolti del nucleare a vent’anni dal referendum (1)

"Grazie alle mobilitazioni antinucleariste, iniziate nella seconda metà degli anni ’70, divenute fenomeno di massa con l’incidente di Cernobyl e sfociate nella vittoria schiacciante al referendum del 1987, l’Italia può vantarsi di essere stato il primo paese industrializzato ad uscire dal nucleare. Solo alla fine degli anni ’90, infatti, verrà seguita dalla Germania con la definizione dell’exit strategy dalla produzione di energia elettrica dall’atomo entro il 2020, e più recentemente dalla Spagna...."

Comincia così il dossier di Legambiente che ha per titolo - I problemi irrisolti del nucleare a vent’anni dal referendum .
Iniziamo con oggi la pubblicazione in questo blog di alcuni capitoli affinchè ciascuno di noi possa farsi una propria opinione in merito. Il primo:

Dall’estrazione dell’uranio al decommissioning delle centrali
La produzione di energia nucleare, così come anche la fabbricazione di armi atomiche e la loro dismissione, comporta un accumulo di materiale fissile altamente radioattivo. I processi che vanno dall’estrazione dell’uranio, alla sua trasformazione, al cosiddetto decommissioning, cioè lo smantellamento degli impianti, rappresentano tutte operazioni che implicano problemi di sicurezza poiché prevedono passaggi delicati che possono rilasciare notevoli quantità di residui radioattivi e che rappresentano l’eredità più pesante dell’utilizzo del nucleare. Soprattutto se, come spesso accade, questi materiali non sono nemmeno adeguatamente custoditi. Un primo rischio è quello che investe la salute dei lavoratori e che riguarda le stesse miniere di uranio. Può accadere che, in assenza di sistemi idonei di ventilazione, vengano inalate quantità pericolose di polveri e di radon, un gas nobile emesso dall’uranio, incolore, inodore e molto radioattivo. Sempre in fase estrattiva, si assiste già a processi di separazione dell’uranio da altri materiali e in questi casi si possono accumulare residui molto nocivi. Di solito vengono stoccati direttamente in luoghi vicini alle miniere che siano in grado di garantire standard di sicurezza adeguati e che consentano di preservare l’ambiente circostante da un contatto diretto con gli scarti. Spesso però questo aspetto è stato sottovalutato, tanto che in molti casi lo stoccaggio di materiale non presenta nemmeno gli standard minimi di protezione. Come è avvenuto per tanti anni nell’ex Unione Sovietica o negli Stati Uniti: questa negligenza ha fatto sì che, solo per le attività legate all’estrazione, l’ex Urss abbia accumulato cinque miliardi di tonnellate di scarti radioattivi con conseguente inquinamento delle aree interessate. Un altro fattore di rischio è quello legato alla trasformazione dell’uranio, elemento presente in natura sotto forma di vari isotopi: in percentuale altissima di U238 (99,3%), di U235 per lo 0,7% e di U234 in misura inferiore allo 0,01%. Allo stato naturale l’uranio non è direttamente utilizzabile per scopi nucleari, necessita quindi di una serie di trattamenti che prevedono l’aumento della concentrazione dell’isotopo 235 rispetto al più comune ma meno radioattivo 238. Questo processo, detto di arricchimento, porta contestualmente alla produzione di altri materiali fissili, tra i quali anche l’uranio impoverito, con il conseguente aumento della generazione di sostanze radioattive. In questa fase è opportuno considerare un fattore che rende difficile il controllo delle quantità di uranio arricchito e impoverito “in giro per il mondo”: entrambi vengono usati in campo civile e militare, ma non c’è una netta linea di demarcazione nel loro impiego. Ad esempio l'uranio arricchito può essere adoperato come combustibile nei reattori nucleari civili, ma anche nei reattori dei sottomarini e delle portaerei militari a propulsione nucleare. E l’uranio impoverito viene utilizzato per la schermatura dalle radiazioni (anche in campo medico), come contrappeso in applicazioni aerospaziali, per le superfici di controllo degli aerei (alettoni e piani di coda), ma è noto anche il suo uso nella fabbricazione di proiettili (con le conseguenze sanitarie che stanno emergendo dopo la guerra nel Golfo e quella nei Balcani16). Questa commistione di usi rappresenta un ulteriore elemento di criticità per il controllo e la sicurezza delle sostanze radioattive accumulate. Ciò rende evidentemente assai difficile anche per l’Aiea avere la garanzia che tutto il materiale fissile prodotto rimanga in luoghi custoditi o che venga utilizzato a soli scopi civili. Va aggiunta infine la normale attività dei reattori che porta altre notevoli quantità di rifiuti e scorie. Alcuni dati: il combustibile nucleare esaurito di un reattore “medio” da 1.000 MW elettrici corrisponde ogni anno a circa trenta tonnellate di metalli pesanti, che variano a seconda dell’arricchimento del combustibile. Mentre il solo plutonio prodotto ogni anno ammonterebbe in totale (considerando tutti i reattori attualmente in funzione) a settanta tonnellate. L’ultimo atto di questo lungo percorso è rappresentato dal cosiddetto decommissioning delle centrali nucleari una volta obsolete. Un’operazione complessa e delicata, che implica considerevoli oneri finanziari e problemi di sicurezza a causa del forte rischio di contaminazione radioattiva dell’area circostante al momento dello smantellamento del nocciolo del reattore, del contenitore in pressione e, nella fase successiva, dello stoccaggio. La procedura completa comporta, oltre alla cessazione dell’attività, anche la decontaminazione dei componenti della struttura, il risanamento del suolo e lo smaltimento dei rifiuti. La tappa finale è il ripristino del sito dove sorgeva la centrale in condizioni tali da consentirne il riutilizzo per altri fini: ciò significa arrivare a una situazione stabile dal punto di vista tecnico, sociale ed economico che tuteli al contempo i lavoratori, la popolazione e l’ambiente circostante. Il completamento di questa operazione può richiedere anche parecchi anni, in ogni caso non meno di un decennio. Non esiste un approccio unico per i processi di decommissioning, perché le politiche dei vari Paesi sono influenzate da fattori come le prospettive legate all’utilizzo dell’energia nucleare, le implicazioni sociali della disattivazione, la disponibilità di personale qualificato, le questioni finanziarie. E’ ormai riconosciuta la necessità di stabilire un budget fin dal periodo di esercizio degli impianti da destinare allo smantellamento e in tal senso sono attive linee dedicate di finanziamento: è fondamentale infatti che i costi siano calcolati in modo puntuale e che ci siano fondi sufficienti al momento opportuno. Nel calcolo complessivo spesso hanno un ruolo di primo ordine le spese per lo smaltimento dei rifiuti che sono del tutto simili a quelli che si generano durante la normale attività, pur tuttavia è opportuno riconoscere che si crea anche una grande quantità di materiale di scarto con poca concentrazione di radioattività. Appare evidente che la gestione dei residui radioattivi è un punto chiave di queste operazioni. In Germania, per esempio, si calcola che il 60% delle spese di disattivazione e smantellamento sia rappresentato proprio dalla gestione dei rifiuti, anche se i materiali considerati come residui altamente radioattivi rappresentano solo una bassa percentuale (3%) di tutto quello che deriva dalla dismissione degli impianti. Esistono poi diverse strategie legate al decommissioning. Si parla di smantellamento immediato quando le operazioni iniziano subito dopo la fine dell’attività e le attrezzature, le parti dell’impianto e dell’edificio vengono decontaminati a un livello che permette la cessazione dei controlli normativi. I rifiuti in questo caso vengono trattati e stoccati in contenitori e trasportati in siti idonei per lo smaltimento. Altro metodo è quello del safe storage che è una sorta di messa in sicurezza dell’impianto finché non si può intervenire per la decontaminazione e lo smantellamento. Solo il combustibile radioattivo viene trattato e allontanato, mentre l’impianto rimane intatto. In questo modo, mentre la struttura è in sicurezza, alcuni radionuclidi decadono e pertanto la produzione di rifiuti finale è minore. D’altronde anche l’AIEA afferma che la generazione di rifiuti radioattivi deve essere ridotta al minimo praticabile19 e questa indicazione comporta che assumano un ruolo primario le operazioni di riutilizzo e di riciclo al fine di ridurre i materiali da trattare, immagazzinare e stoccare. Un altro tipo di dismissione è l’entombment, cioè la copertura dell’impianto con una struttura in calcestruzzo sottoposta a manutenzione finché il decadimento delle sostanze radioattive non permette di terminare i controlli normativi. Ma dato che quest’ultimo metodo spesso non è applicabile, finisce che l’entombment si trasforma in un safe storage prolungato. Tutto il processo che va dall’estrazione alla produzione di uranio per le centrali atomiche fino alla dismissione degli stessi impianti, è scandito dunque dalla “generazione” di materiale radioattivo perché ogni passaggio chimico o fisico comporta la creazione di scarti. Il problema in ogni fase è dunque lo stesso: la loro sistemazione in luoghi protetti che ne impediscano da un lato la contaminazione del territorio circostante e dall’altro il furto da parte di organizzazioni per l’utilizzo a scopi bellici o terroristici.

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